Forlì, Teatro Diego Fabbri

Forlì, Teatro Diego Fabbri

Fin dal Settecento la Romagna è terra di grandi tradizioni teatrali: il Comunitativo di Ravenna apre nel 1723, quello di Lugo nel 1761 e il Comunale di Forlì nel 1776, due anni prima della Scala di Milano. Progettato dall’architetto imolese Cosimo Morelli, il Comunale di Forlì è bellissimo anche se piccolo, proporzionato alla popolazione della città. Nei primi anni dell’Ottocento viene parzialmente ampliato, anche se resta di dimensioni limitate. In ogni caso, accanto agli spettacoli di prosa, accoglie quasi tutta la produzione melodrammatica, ospitando spesso artisti tra i più celebri del panorama italiano. Poi arriva la seconda guerra mondiale e un bombardamento colpisce la Torre civica che rovina sul teatro, nell’attuale Piazzetta della Misura, e lo distrugge completamente. Ecco che gli spettacoli più importanti sono costretti a emigrare al cinema Astra, in corso Diaz, che diventa “Teatro Astra”. Alla fine degli anni Novanta del Novecento, inizia a “perdere colpi”: non è più adeguato alle esigente del pubblico e sceniche. L’amministrazione comunale decide di intervenire, senza privare la città degli spettacoli: le stagioni si trasferiscono al “Testori”, teatro privato più piccolo, ma in grado di garantire la continuità della proposta culturale. Dopo il restauro che lo ristruttura radicalmente (del precedente edificio restano solo tre pareti portanti), nel 2000 viene intitolato a Diego Fabbri, forlivese, fra i maggiori drammaturghi del Novecento, grande sceneggiatore per la Rai (un solo esempio per tutti: parte del ciclo dedicato al Commissario Maigret, ma anche “I fratelli Karamazov”). L’inaugurazione è del 27 novembre di quell’anno: Riccardo Muti  dirige l’Orchestra Filarmonica della Scala di Milano. Oggi il teatro è gestito dal Comune, ha 710 posti (550 in platea e 160 in galleria), un foyer da cento posti e due sale prova. Non è, naturalmente, “all’italiana”.

Forlì, Chiesa di San Giacomo

Forlì, Chiesa di San Giacomo

Quando nascono e si diffondo, nei primi decenni del Duecento, gli Ordini mendicanti rinnovano il complesso rapporto tra la Chiesa e le città comunali. È il caso dei Domenicani, che a Forlì costituiscono un centro di promozione della fede e della cultura, grazie a figure di spicco della religiosità, anche popolare, come il beato Salomoni e il beato Marcolino. La loro attività fa perno sul grande Convento e sulla chiesa, intitolata all’apostolo Giacomo, all’inizio piccola e semplice: aula a tre navate e tre campate, due cappelle absidali. Il campanile è già dove lo si vede ora. Dopo la morte del beato Salomoni viene aggiunta l’omonima cappella, vicina alla facciata nord dell’aula. Poi la chiesa resta quasi un perenne cantiere aperto: alla fine del XV secolo l’aula viene rinnovata e si aggiungono quattro campate. L’originario spazio tripartito viene modificato in un’unica grande navata. È il segno del crescente ruolo dei domenicani. Nello stesso periodo viene ricostruito anche il Convento. In epoca rinascimentale e barocca la chiesa è abbellita, con decorazioni e arredi: l’aspetto interno cambia, ma senza alterarne la struttura. Nel Settecento si apre un nuovo cantiere, che la porta allo stato attuale: l’aula viene allargata, la facciata arretrata, si costruisce un’abside più ampia e monumentale, le cappelle laterali sono “omogeneizzate”. La chiesa resta aperta al culto anche nell’età napoleonica, ma nel 1867, con la definitiva soppressione da parte dello Stato Italiano, viene chiusa, spogliata e trasformata in maneggio militare. Inizia una fase di progressivo degrado, che culmina con l’abbandono e il crollo di parte della copertura e della facciata meridionale, nel 1978. A partire dagli anni Novanta, il Comune avvia il processo di graduale recupero che porta al completo restauro. Oggi è parte integrante dei Musei di San Domenico, che ospitano la Pinacoteca comunale e straordinarie esposizioni temporanee; il Complesso comprende anche Palazzo Pasquali, il Convento dei Domenicani, quello degli Agostiniani e la sala Santa Caterina.

Antico Porto di Classe

Antico Porto di Classe

Il Porto di Classe per diversi secoli è stato uno fra gli scali principali e prestigiosi del mondo antico: qui Ottaviano Augusto, verso la fine del I secolo a. C. fece costruire gli imponenti moli foranei che consentirono alle navi l’accesso dal mare e fece insediare la flotta imperiale a controllo dell’intero Mediterraneo orientale. Lì sbarca Apollinare, in arrivo dalla Turchia, primo vescovo della città, martirizzato proprio nell’angiporto il 23 luglio del 74 dopo Cristo, eletto patrono della città. Nel corso del V secolo, con Ravenna capitale (dal 402), Classe diventa un’importante civitas e non più solo un porto, e assume una funzione fondamentale come sbocco commerciale oltre che come baluardo militare verso il mare. Proprio al V secolo risale l’impianto generale delle strade e degli edifici valorizzati nel progetto di “Museo a cielo aperto”, su una superficie di circa diecimila metri quadrati, prima tappa del Parco Archeologico di Classe. Quinto Secolo, dunque: si tratta del periodo tardo antico e bizantino e la ricostruzione rende evidente la dimensione e il contesto di quel grande porto commerciale, al centro di traffici rilevantissimi con l’Africa e, in particolare dopo il 540, con l’Oriente. Ecco quindi  i magazzini; si riconoscono i collegamenti che conducono dalle banchine all’isola al centro del canale portuale; e la strada basolata lungo la quale sfilano i carri con le merci dirette a Ravenna e nell’impero. L’intera area è poi costellata di rinvenimenti e monumenti tra i più importanti di Ravenna, su tutti campeggia Sant’Apollinare in Classe; poi c’è il Museo della Città e del Territorio e si possono ammirare i resti della basilica di San Severo. Così, dai primi sondaggi del 1961, passando per le prime campagne di scavo degli anni Settanta (il porto viene individuato nel 1975), il territorio ravennate può vantare un altro punto d’eccellenza. Infatti, il lungo impegno della Fondazione RavennAntica ha portato, nel 2015, all’apertura del sito archeologico con il progetto valorizzazione firmato dall’architetto Daniela Bardeschi dando vita alla prima stazione del Parco Archeologico di Classe.

Basilica di San Francesco

Basilica di San Francesco

Il poco che rimane dell’antica chiesa, fatta costruire nel V secolo dall’arcivescovo Neone, è quasi tutto sotto terra. Il piano originario infatti si trova oltre tre metri e mezzo più in basso del livello stradale di oggi. Attraverso una finestra sotto l’altare maggiore, si scorge la cripta del X secolo, un ambiente a forma di oratorio sorretto da pilastrini destinato a ospitare le reliquie del vescovo Neone. Il pavimento è costantemente sommerso dall’acqua, che tuttavia permette di ammirare i frammenti musivi del pavimento della chiesa originaria. Il campanile quadrato, alto quasi 33 metri, risale invece al IX secolo, come quello quasi identico di S. Giovanni Evangelista. Nella propria “Guida di Ravenna” del 1923, Corrado Ricci, sottolinea la qualità dei restauri eseguiti appunto sul campanile in quegli anni, ma lamenta la sostituzione delle campane secentesche e settecentesche «dal severo e poderoso suono», con altre, dal timbro «stridulo». Rifatta e restaurata più volte, la basilica viene praticamente ricostruita nel 1793 da Pietro Zumaglini. Dedicata agli Apostoli Pietro e Paolo, poi intitolata solo a San Pietro Maggiore, assume il nome di San Francesco nel 1261, quando passa in concessione ai francescani con case, orti e portici circostanti. I frati conventuali devono abbandonarla nel 1810 per tornarvi poi stabilmente nel 1949.
La basilica, dalla facciata semplice, rustica e serena, è indissolubilmente legata ai funerali di Dante Alighieri, celebrati con tutta probabilità il 15 settembre 1321, davanti alle massime autorità cittadine, con Guido Novello da Polenta in prima fila insieme ai figli del Sommo Poeta, Pietro e Jacopo, e alla figlia, suor Beatrice. Il poeta trecentesco Cino da Pistoia, “maestro” di Francesco Petrarca, dedica all’evento il poema “Su per la costa, Amor, de l’alto monte”, che si chiude con questi versi:
«…quella savia Ravenna che serba
il tuo tesoro, allegra se ne goda,
ch’è degna per gran loda».
Quando i frati tornano a Ravenna, appunto nel 1949, ottengono dall’arcivescovo Giacomo Lercaro di rientrare nella “loro” basilica, la “chiesa di Dante”. E nell’imminenza del settimo Centenario della nascita di Dante si creano le condizioni una specifica attività “dantesca”. Ci pensa padre Severino Ragazzini (1920-1986) che fonda il Centro Dantesco e ne è direttore fino all’improvvisa morte. Con straordinaria passione si impegna per realizzare un’opera «che non avesse solo la durata di un centenario, ma si prolungasse nel tempo, prendendo sempre più spazio e importanza». Il festival ha scelto da quasi tre lustri di portare sotto quelle volte liturgie e canti sacri da tutto il mondo, recuperando una tradizione che risale alla seconda metà del 1600 quando, nel vicino convento e nella chiesa si udivano «musiche esquisite»

Rocca Brancaleone

Rocca Brancaleone

Possente, e unica architettura da “macchina da guerra” della città, la Rocca Brancaleone è stata costruita dai Veneziani fra il 1457 e il 1470, segno vistoso della loro dominazione a Ravenna. Nelle proprie fondamenta nasconde le macerie della chiesa di S. Andrea dei Goti, fatta erigere da Teodorico poco distante da dove sarebbe sorto il suo Mausoleo. Ma il “castello” non nasce per difendere la città: viene infatti progettato come strumento di controllo di Ravenna. Non a caso le sue mura contavano 36 bombardieri rivolti verso l’abitato e solo 14 verso l’esterno. In realtà la fortezza non regge al diverso modo di combattere: dopo un assedio lungo un mese, nel 1509 viene espugnata dai soldati di papa Giulio II, che caccia i Veneziani. E durante la battaglia di Ravenna, nel 1512, resiste appena quattro giorni.

L’intero complesso, per quasi trecento anni di proprietà del Governo Pontificio, appunto dai primi del sedicesimo secolo, dopo vari passaggi proprietari nel 1965 viene acquistato dal Comune di Ravenna per 90 milioni. L’idea è di realizzare nella cittadella un grande parco; e un teatro all’aperto nella Rocca vera e propria. Così, fra qualche restauro discutibile, e recuperi più interessanti, la musica fa il proprio ingresso fra quelle mura il 30 luglio 1971, con una rassegna organizzata dall’associazione “Angelo Mariani”. Sul palcoscenico arriva per prima la Filarmonica della città bulgara di Ruse diretta da Kamen Goleminov. Così la Rocca diventa la più qualificata e suggestiva “arena” di tutto il territorio. Nasce lì, il 26 luglio 1974, Ravenna Jazz, il più longevo appuntamento d’Italia con la musica afro-americana. Quelle prime “Giornate del jazz” ospitano il quintetto di Charles Mingus e la Thad Jones/Mel Lewis Orchestra, negli anni Ottante il testimone passa poi all’opera lirica con allestimenti firmati da ‘maestri’ come Aldo Rossi e Gae Aulenti. Si arriva così all’1 luglio 1990 quando Riccardo Muti alza la bacchetta sul podio dell’Orchestra Filarmonica della Scala e del Coro della Radio Svedese e tra le antiche mura veneziane risuona il primo movimento: Adagio – Allegro spiritoso della Sinfonia n. 36 in Do maggiore K 425 di Wolfgang Amadeus Mozart, meglio conosciuta come Sinfonia Linzer. È il battesimo di Ravenna Festival.

Basilica di Sant’Agata Maggiore

Basilica di Sant’Agata Maggiore

Quando viene fondata, ai tempi del vescovo Pietro II (il suo monogramma campeggia nella navata centrale) alla fine del V secolo, sorge sulla riva del fiume Padenna. Sant’Agata Maggiore è una fra le chiese più antiche della città ma anche quella che, nei secoli, ha subito le maggiori modifiche; tuttavia conserva un proprio, arcaico, fascino. E fa fede della sua antichità la profondità del suo piano originale, due metri e mezzo più “basso” di quello attuale di campagna. Il campanile, invece, è del sedicesimo secolo; supera di poco l’altezza della chiesa ed è punteggiato da tanti piccoli fori, con alcune monofore e, in alto, con quattro bifore. Ha preso il posto di un quadriportico, realizzato su un prato, che ricopriva un cimitero. Nel corso dei restauri, effettuati tra il 1913 e il 1918 da Giuseppe Gerola, alla facciata viene aggiunto il bel protiro e la sovrastante bifora inquadrata da marmi. Lo spazio interno è a tra navate. L’impianto basilicale è scandito da colonne, alcune delle quali sormontate da capitelli corinzi del VI secolo. Un’antica arca, accanto all’altare di Sant’Agata, conserva le ceneri di San Sergio Martire e del Vescovo Agnello. Sopra l’arca campeggia una tela di Luca Longhi del 1546: raffigura Sant’Agata fra le Sante Caterina d’Alessandria e Cecilia. Se Sant’Agata Maggiore non è mai stato luogo “di spettacoli” si  è però rivelata la sede ideale per le Liturgie domenicali e i momenti di musica sacra che, da molti anni, il Festival propone con il titolo “In templo domini”.  Una curiosità: documenti conservati nella Biblioteca Classense descrivono un esorcismo portato a termine con successo nel novembre del 1716. A salvare l’anima di una bimba di 12 anni, ritenuta indemoniata, è monsignor Evangelista Antonio Coratti, parroco di Sant’Agata Maggiore.

Teatro Rasi

Teatro Rasi

Questo piccolo teatro è stato costruito nell’ultimo decennio dell’Ottocento nell’ex chiesa monastica di Santa Chiara, fatta erigere nel 1250 da Chiara Da Polenta e soppressa con editto napoleonico nel 1805. La chiesa era decorata con bellissimi affreschi trecenteschi di scuola riminese, staccati attorno al 1950 e che, dopo lunghe vicissitudini, ora sono conservati nel Museo Nazionale di Ravenna. Come altri ex luoghi di culto, anche S. Chiara, concessa in enfiteusi al barone Pergami della Franchina nel 1823, viene trasformata in “cavallerizza”. Mantiene questa destinazione fino al 1885 e , per un decennio, ospita spettacoli equestri. Acquistato dal Comune, l’edificio viene concesso all’Accademia Filodrammatica, rimasta priva della propria sede (il “Bertoldi” di via Alberoni) appunto per trasformarlo in teatro. Viene inaugurato l’8 maggio 1892 con la commedia “Il deputato di Bombignac” di Alessandro Bisson e un monologo scritto dal celebre attore ravennate Luigi Rasi, a cui sarà intitolato nel 1919. Per molti anni ospita spettacoli d’operetta e musica cameristica, realizzati per lo più da compagnie e artisti locali. Poi, dopo l’avvio di lavori radicali di ristrutturazione iniziati nel 1959, resta chiuso fino al 1978. Quando riapre il Rasi assomiglia più a un cinematografo che a un vero teatro, ma l’abside, conservata e poi valorizzata anche da registi e scenografi, resta un elemento, raro e preziosissimo della sua storia. Dal 1991 è gestito da Ravenna Teatro-Teatro Stabile di Innovazione, realtà culturale nata dalla fusione di Teatro delle Albe e Compagnia Drammatico Vegetale. Sede anche di laboratori per gli studenti, la celebre “Non-Scuola” di Marco Martinelli, ha dedicato spazi significativi alle culture delle minoranze etniche e ad altri eventi culturali. Ravenna Festival vi approda nel 1990, il 3 luglio, con il Quartetto Beethoven nella seconda serata della prima edizione, e da allora è una fra le sedi principali della manifestazione.

Basilica di San Vitale

Basilica di San Vitale

Consacrata dall’arcivescovo Massimiano fra il 547 e il 548 dopo Cristo, la Basilica di San Vitale è la testimonianza dell’importanza raggiunta da Ravenna all’epoca dell’imperatore Giustiniano. Capolavoro assoluto dell’arte paleocristiana e bizantina, nel 1996 è stato inserito dall’UNESCO fra i siti patrimonio dell’umanità. Il prestigioso magazine statunitense online Huffington Post definisce San Vitale “uno fra i 19 luoghi sacri più importanti al mondo”. È a pianta ottagonale e formata da due corpi; quello interno è sormontato da una cupola sostenuta da otto possenti pilastri ricoperti di marmo. I suoi valori architettonici sono legati in modo imprescindibile a quelli cromatici dei mosaici  che rivestono le pareti, il presbiterio e l’abside, che raffigurano temi biblici, simbolici e storici. In loro si uniscono i valori politici dell’edificio, con la raffigurazione dell’imperatore e dell’imperatrice ai piedi del Cristo; e quelli religiosi, nella costante riaffermazione della verità del culto ortodosso, a sancire la sconfitta dell’arianesimo, in città, con la fine del governo di Teodorico. Ma queste sono meraviglie conosciute, appunto, sotto ogni latitudine. Ma anche i pavimenti della Basilica riservano sorprese, meno note. Si può passare dal semplice motivo della stella polare a otto raggi, ripetuto più volte, non solo nel pavimento. Poi ecco il cosiddetto “labirinto dell’anima”. È incastonato nel pavimento del presbiterio, proprio di fronte all’altare; composto da sette volute, era anticamente considerato simbolo di peccato, mentre il percorrerlo tutto rappresentava la via della purificazione; e trovare la via d’uscita un atto di rinascita.
Luogo, quindi, dalle mille suggestioni, in cui sono risuonati, fin dal Settecento, oratori e sonate, sinfonie e mottetti. Poi, dal 1961, la Basilica è diventata la sede stabile del Festival internazionale di musica d’organo, il primo e più antico d’Italia. Il Festival ha fatto di San Vitale, da subito, un proprio punto di riferimento fondamentale, all’interno di un percorso legato alla spiritualità

Antichi Chiostri Francescani

Antichi Chiostri Francescani

Il complesso monumentale degli antichi Chiostri Francescani è un angolo di raffinata bellezza e di silenzio in pieno centro storico, un luogo che ha un valore simbolico e morale, prima ancora che architettonico e artistico. Ricorda infatti la permanenza di Dante Alighieri nella città. Faceva parte del convento costruito dai francescani nel 1261 vicino alla chiesa omonima. Quelli di oggi non sono però gli originari, risalgono infatti al XV secolo e hanno tracce di interventi del XVII. L’intera zona dantesca ha poi assunto l’aspetto romantico di oggi fra il 1921 e il 1932, con il restauro della Basilica di San Francesco, della Cappella di Braccioforte e della Tomba di Dante, su progetto dell’architetto Giulio Ulisse Arata (che ha firmato anche il Palazzo della Provincia). Il primo chiostro è intitolato a Dante, ed è rimasto ai frati conventuali fino al 1810. Al pianterreno si snoda in un magnifico loggiato orlato di colonne di marmo bianco con capitelli in stile dorico. Al centro si trova un pozzo adorno di sculture.  Il secondo, detto “della Cassa” ha una forma irregolare determinata dal numero diverso di arcate del loggiato a pianterreno. Le colonne sono costituite di sasso d’Istria, di marmo rosso veronese e di greco. Al primo piano corre una loggetta sorretta da pilastri di mattone con capitelli di cotto. Al centro si trova un puteale, sempre di sasso d’Istria, con scolpiti in rilievo due anfore e due stemmi uguali, sui quali c’è un’aquila con il motto “In Pietra Exaltavit Me”. Entrambi sono stati acquistati nel 2001 dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, che li ha restaurati e valorizzati. Nel chiostro una lapide ricorda il punto in cui nel 1519 i frati praticarono un foro per arrivare all’antico sarcofago in cui riposavano le spoglie mortali di Dante per trafugarle ed evitare che venissero prelevate dai fiorentini. Papa Leone X, figlio di Lorenzo il magnifico, le aveva infatti “restituite” a Firenze, dopo che varie richieste di restituzione erano state respinte. Le ossa furono ritrovate solo nel 1865, poco distante dalla cappella di Braccioforte. Queste oasi di pace hanno ospitato preziosi recital e letture dedicate a Dante Alighieri.

Artificerie Almagià

Artificerie Almagià

Da “magazzino dello zolfo”, nel centro di un importante complesso industriale che comprendeva anche una raffineria, a rudere da archeologia industriale. Poi la rinascita e la trasformazione in sala polifunzionale per spettacoli e piccolo teatro, conferenze e convegni. Ecco il percorso dello stabilimento in destra Candiano, costruito nel 1887 per l’azienda di Vito Almagià di Ancona, su progetto di Giuseppe Castellucci. L’opificio funziona per quasi un secolo, poi tutto si ferma: l’agricoltura non usa più Ddt e fitofarmaci derivati, la cui produzione è iniziata nel secondo dopoguerra. Ma l’edificio è architettonicamente significativo: la pianta assomiglia a quella di una basilica, con una navata centrale, due laterali e un portico su ciascuno dei due lati corti. La struttura portante è interamente in muratura a vista, sia all’interno che all’esterno. Lasciarlo in rovina non ha senso. Così l’area viene compresa nel progetto di riqualificazione urbana della Darsena di Città. Intanto la Fondazione Ravenna Manifestazione ne intuisce le potenzialità e, come ha fatto e continua a fare per altri spazi della città, decide di valorizzarlo. Così, nel 1996, lo sceglie come sede per il debutto dell’opera teatrale “All’Inferno!”: l’odore di zolfo che ancora impregna i mattoni delle pareti è il giusto atout per lo spettacolo scritto e diretto da Marco Martinelli. Tre anni dopo il Comune acquista l’ex magazzino, lo ristruttura e lo riqualifica. Oggi può ospitare fino a 300 posti a sedere ed è uno spazio di grande fascino e suggestione. È punto di riferimento per eventi di danza contemporanea, teatro d’animazione, teatro di ricerca, e quasi recupera il carattere “alchemico” (chimico) delle origini, proponendo “esperimenti” di cultura.