L’identità architettonica ed urbanistica di Lugo risale al secolo XVIII, un periodo caratterizzato, per la città, da una grande vivacità culturale e da una forte espansione economica. Un raro esempio di architettura civile settecentesca, che anticipa quasi soluzioni urbanistiche moderne, è il Pavaglione, costruito a partire dal 1771 e completato nel 1784 da Giuseppe Campana. Si tratta di un imponente quadriportico, che sorge nel sito di un più antico loggiato tardo-cinquecentesco, per le esigenze del mercato dei bozzoli del baco da seta (papilio in latino, da cui il nome del complesso), allora fiorentissimo.
Sottoposto a un accurato restauro nel 1984, il Pavaglione è un quadrilatero irregolare i cui lati più lunghi misurano rispettivamente 131 e 133 metri, contro gli 82 di quelli corti. Frutto dell’impegno civico del secondo Settecento, il Pavaglione è tuttora sede delle attività commerciali più significative per la città. Oltre alle caratteristiche botteghe che si aprono all’interno della struttura, sotto i portici, oggi come duecento anni fa la costruzione ospita il Mercato settimanale e la Fiera, oltre a svariate rassegne a carattere economico. D’estate è anche sede di spettacoli musicali: il binomio musica-mercato vanta infatti una tradizione antichissima, che si richiama ai tempi in cui il mercato era occasione di incontro e pertanto anche di intrattenimento da parte di giullari e compagnie di attori che vi giungevano attirati dalla ricchezza e dalla floridità dei commerci. Numerosi documenti attestano diversi eventi teatrali che si tennero in concomitanza con la Fiera fin dal XVI secolo. Si sa, per esempio, che una compagnia di commedianti era a Lugo dal 1586, nel 1594 venne rappresentato il Filleno, favola boschereccia di Illuminato Perazzoli, nell’antico loggiato che sorgeva sul sito del Pavaglione, mentre nel 1641 venne eseguito il Pastor Fido del Guarini sempre negli stessi spazi aperti. Benedetto Marcello, nel Teatro alla moda (1720), faceva dire alla madre di una cantante che la figlia si era esibita a Lugo “dov’as’fa qui gran uperun” (espressione che più o meno significa: dove si fanno quelle grandi opere).
La Cattedrale della Resurrezione (Anastasis) sorge sulle fondamenta della Basilica Ursiana, fondata tra il IV e il V secolo dal vescovo Ursus, per dare una sede adeguata alle riunioni della fiorente comunità cristiana della città. La basilica, a cinque navate, già in origine era dotata del battistero ottagonale, restaurato e arricchito da decorazioni musive dopo la metà del V secolo dal vescovo Neone. Attorno al X secolo, fu poi eretto il grande campanile cilindrico e realizzata una cripta nel presbiterio, mentre l’abside, nel 1112, fu decorata da un grande mosaico realizzato da artisti bizantino-veneziani. Nel 1720, considerando le precarie condizioni dell’edificio, si decise di ricostruirlo ex novo, conservandone solo il presbiterio. Compromessa da un crollo la zona absidale, finirono per salvarsi solo il battistero, il campanile e le due cappelle laterali, oltre ad alcuni arredi marmorei. La nuova cattedrale, edificata su progetto dell’architetto Gian Francesco Buonamici, fu consacrata nel 1749, ma subì varie modifiche nei decenni seguenti a opera del camaldolese Giuseppe Antonio Soratini e di Cosimo Morelli.
Essa si articola internamente in tre navate scandite da pilastri, con numerosi altari laterali in cui sono collocate tele di vari artisti del XVIII e XIX secolo; al termine della navata mediana si eleva una grande cupola. Il pavimento presenta ricchi intarsi di marmi, per i quali vennero addirittura segate le colonne della antica basilica. Di particolare interesse sulla destra l’ambone in marmo di Proconneso, edificato per la antica Basilica Ursiana dall’arcivescovo Agnello (556-569), successivamente smontato e infine ricostruito nel 1913.
La cappella del Sacramento nel transetto sinistro, appartenente ancora alla vecchia basilica, presenta affreschi di Guido Reni e aiuti (1620); del Reni è anche la tela sull’altare, con Mosè e la caduta della manna e la lunetta ad affresco, originariamente all’ingresso della cappella e successivamente trasportata al termine della navata sinistra, con L’angelo porta ad Elia pane e vino. La cappella del transetto destro, in cui si venera l’icona della Madonna del sudore, presenta due splendidi sarcofagi ravennati del V secolo, dell’arcivescovo Rinaldo a sinistra e di S. Barbaziano a destra. Un altro sarcofago della stessa epoca, quello di Esuperanzio, è collocato nella navata destra sotto l’altare del crocifisso.
Le Valli di Comacchio e il Bettolino di Foce, rappresentano un ecosistema estremamente ricco di nutrimento, accolgono per questo una grande varietà di uccelli (oltre 300 specie).
Il territorio è un museo all’aria aperta, i vasti bacini di acqua salmastra e poco profonda, intervallati da strisce di terra ricoperte di vegetazione alofita, costituiscono un richiamo per i fenicotteri, il gabbiano corallino, la sterna comune, che qui nidificano.
Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, copre un’area di circa 36.000 ettari, equamente divisa fra l’Emilia Romagna e la Toscana. All’interno sono presenti aree di eccezionale valore naturalistico, in cui l’antropizzazione è assente o di scarso rilievo e nelle quali l’ambiente naturale è conservato nella sua integrità. Aree destinate alla salvaguardia ed al mantenimento degli equilibri biologici ed ambientali in atto, alla prevenzione ed all’eliminazione di eventuali fattori di disturbo endogeni ed esogeni come la Riserva Naturale Integrale di Sassofratino.
Edificata nella seconda metà del Cinquecento nel corso della prima fase di ampliamento del Monastero di Classe entro le mura, la Sala Dantesca, in origine refettorio del convento camaldolese, viene così chiamata a partire dal 1921, sesto centenario della morte dell’Alighieri e momento in cui viene adibita a spazio dedicato alle letture della Divina Commedia. La costruzione del refettorio e la sua ricca decorazione si devono alla volontà dell’abate Pietro Bagnoli da Bagnacavallo, per lungo tempo a capo dell’abbazia. Nel 1580 la Sala venne ornata dello scenografico dipinto raffigurante l’episodio evangelico delle Nozze di Cana, eseguito sul muro settentrionale dal noto pittore Luca Longhi. Un grande affresco sul soffitto rappresenta la scena del Sogno di San Romualdo preziosi stalli lignei, eseguiti nel 1581 dall’intagliatore Marco Peruzzi e decorati con erme antropomorfe, ornano le pareti. I laboriosi ed accurati lavori di restauro, conclusisi lo scorso marzo e sostenuti dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna insieme alla Regione Emilia-Romagna, hanno restituito alla cittadinanza i preziosi ambienti dell’atrio e della sala, ad oggi restituiti alla funzione culturale di sala civica ad alta valenza simbolica.
Realizzato agli inizi del XVI secolo, il chiostro dell’Abbazia di Santa Maria in Porto prende il nome dalla Loggia del Giardino, meglio conosciuta come Loggetta Lombardesca, dalle maestranze campionesi e lombarde che vi lavorarono sotto la direzione di Tullio Lombardo.
Dell’edificio originario, che dall’età delle soppressioni napoleoniche ha subito più volte riconversioni d’uso e rifunzionalizzazioni, sino al restauro degli inizi degli anni ’70 del Novecento, rimane il chiostro dalle proporzioni rinascimentali, l’impianto degli spazi e l’elegante loggia a cinque archi, divenuta il simbolo e l’emergenza monumentale dell’intero complesso.
Attualmente la Loggetta Lombardesca ospita il Museo d’Arte della città di Ravenna, dal 2002 Istituzione del Comune di Ravenna.
Con la nascita dell’Istituzione il museo, già Pinacoteca Comunale, ha rilanciato l’attività culturale, affiancando ad una già consolidata attività di conservazione e di valorizzazione del patrimonio, una produzione culturale articolata, con la costituzione del Centro Internazionale di Documentazione sul Mosaico, e l’attività espositiva, che consente di divulgare gli esiti della ricerca scientifica più avanzata. Il museo si muove su diversi registri, per indagare i laboratori artistici, dai grandi temi della contemporaneità in una prospettiva storica, alle frontiere della creatività emergente, dagli interventi di valorizzazione del patrimonio, al recupero della cultura materiale e delle manifatture.
Primi decenni dell’Ottocento: dopo oltre cent’anni il Teatro Comunicativo, interamente di legno, sta cedendo e la Civica Amministrazione decide di realizzare una struttura nuova. Intanto si deve trovare un luogo adatto e la scelta cade sulla Piazzetta degli Svizzeri, squallida e circondata da catapecchie, ma in pieno centro. Il progetto nel 1838 viene affidato a due architetti veneti, i fratelli Tomaso e Giovan Batista Meduna. Il primo ha curato il restauro del Teatro alla Fenice di Venezia, semidistrutto da un incendio. E porta la sua firma anche il primo ponte ferroviario di congiunzione di Venezia con la terraferma. Nasce così un edificio neoclassico, simile sotto molti aspetti al teatro veneziano. È il delegato apostolico, monsignor Stefano Rossi, a suggerire l’intitolazione a Dante Alighieri. L’inaugurazione ufficiale avviene il 15 maggio 1852 con “Roberto il diavolo” di Giacomo Meyerbeer e i balli “La zingara” e “La finta sonnambula” con l’étoile Augusta Maywood.
In quasi due secoli di vita golfo mistico, palcoscenico e platea, hanno ospitato personalità di tutto il mondo, farne un elenco è impossibile. Si possono citare però due curiosità: intanto la presenza in sala di Benedetto Croce con la compagna, mai moglie, Angelina Zampanelli a un recital di Ermete Zacconi, nel 1899. Poi l’arrivo di Gabriele D’Annunzio con Eleonora Duse, il 27 maggio 1902, per “Tristano e Isotta”. Quella sera l’incasso è a favore dell’Ospedale civile e il Vate fa subito sapere di offrire 100 lire. Una poltrona di platea costa 4 lire.
Nel 1959 il teatro viene chiuso lavori di consolidamento delle strutture; riapre dopo otto anni iniziando poi il percorso di qualità che lo ha portato ai fasti e alla notorietà internazionale di oggi.
Il 10 febbraio 2004 il “Ridotto” è intitolato ad Arcangelo Corelli, in occasione del 350 anni della nascita del grande compositore di Fusignano.